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Migliorare l’accesso all’aiuto umanitario in situazioni di conflitto e di emergenza è sempre stata una delle principali preoccupazioni per gli operatori umanitari. Per garantire l’accesso, l’assistenza e la protezione dei civili, l’azione umanitaria è stata storicamente portata avanti in situazioni di estrema insicurezza e in condizioni politiche instabili. Il concetto di diplomazia umanitaria ha cominciato a farsi strada agli inizi degli anni 2000 per descrivere i tentativi e le strategie di persuasione che gli attori umanitari compiono nei confronti delle forze politiche locali e nazionali affinché agiscano, in ogni momento e in ogni circostanza, nell’interesse delle persone più vulnerabili e nel pieno rispetto dei principi umanitari fondamentali quali neutralità, indipendenza, umanità e imparzialità.

Tradizionalmente, la diplomazia umanitaria comprende sia la negoziazione con vari attori politici, statali e non, circa la presenza delle organizzazioni umanitarie in una determinata area, sia la negoziazione per garantire la protezione e l’accesso agli aiuti delle popolazioni civili. Ciò comporta il monitoraggio dei programmi di assistenza, la promozione del rispetto del diritto internazionale e l’esercizio di attività di supporto a favore di più ampi obiettivi umanitari (Minear e Smith 2007). Dal punto di vista delle organizzazioni umanitarie, la diplomazia umanitaria è pertanto considerata come uno strumento che permette di raggiungere le persone più vulnerabili, un obiettivo che si inserisce nella logica del leave no one behind (non lasciare indietro nessuno).

La diplomazia umanitaria – un ossimoro?

Esiste una notevole tensione nel concetto stesso di diplomazia umanitaria. La diplomazia riguarda essenzialmente la rappresentazione di un’entità politica in rapporto a un’altra entità politica. L’umanitarismo, da parte sua, ambisce a proteggere le persone in stato di necessità ed emergenza. La diplomazia è caratterizzata da compromessi e da relazioni pragmatiche, mentre l’immagine pubblica dell’azione umanitaria è, all’opposto, orientata all’universalismo e al rispetto di principi fondamentali. Sarebbe governata, in altre parole, da principi universali indipendentemente dagli interessi specifici in gioco. Al di là di questa immagine idealtipica dell’azione umanitaria, la diplomazia umanitaria è cruciale per comprendere la reale e complessa architettura diplomatica dell’aiuto umanitario e le continue negoziazioni e compromessi che richiede. 

Il principio di neutralità nell’azione umanitaria è sempre stato messo in discussione nella letteratura accademica e, più raramente, dagli stessi operatori umanitari. L’approccio critico ha messo in evidenza come tale neutralità sia di fatto compromessa tanto da specifici interessi politici, che prendono forma nell’ambito umanitario, quanto dalle strategie di negoziazione umanitaria che avvengono tra organizzazioni, strutture statali, gruppi armati, aziende, etc. Dal punto di vista degli attori umanitari, la neutralità è indispensabile per evitare che le operazioni umanitarie vengano soggiogate allo svolgersi di dispute di carattere politico, etnico, religioso o ideologico. Ma, come accennato, questo principio di neutralità è difficile da applicare. In situazioni di conflitto, per esempio, le organizzazioni umanitarie dipendono spesso dallo sviluppo di una rete di relazioni formali e informali con le parti coinvolte per garantire l’accesso all’aiuto. Inoltre, le dinamiche di applicazione dei progetti umanitari sono influenzate dalla concorrenza regionale tra enti donatori e governi e dalla capacità delle organizzazioni internazionali di mantenere un equilibrio tra bisogni delle popolazioni e politiche di finanziamento. Altre sfide importanti riguardano la volatilità dell’opinione pubblica, la legittimità dei governi coinvolti, l’evoluzione delle relazioni tra l’azione umanitaria e altre forme di sostegno quali l’assistenza allo sviluppo, le operazioni di pace e i progetti di ricostruzione.

Studiare la diplomazia umanitaria

La varietà delle priorità, degli obiettivi e degli attori umanitari coinvolti in situazioni di emergenza (soprattutto di lunga durata) si riflette in diverse concezioni della diplomazia umanitaria. La definizione e le idee di diplomazia umanitaria, infatti, variano tanto quanto il numero di organizzazioni (o di Stati) che ne utilizzano il termine. Ci sono vari gradi di differenza tra l’idea generale della diplomazia umanitaria, l’utilizzo concreto del termine e il riconoscimento internazionale di una modalità di esercizio della diplomazia umanitaria (Reigner 2011). Nonostante la diplomazia umanitaria sia sempre più considerata come un aspetto cruciale dell’accesso all’aiuto, specialmente in zone di conflitto, poche organizzazioni conservano traccia delle loro iniziative diplomatiche. Alcuni lavori di ricerca sulle negoziazioni umanitarie hanno investigato, per esempio, le condizioni e le dinamiche attraverso le quali gli attori umanitari possono influenzare la politica per proteggere i civili, proibire l’uso di armi non convenzionali o contrastare la violenza sulle donne. Nuovi studi sulla diplomazia umanitaria dovrebbero trarre profitto da queste conoscenze, ma dovrebbero allo stesso tempo considerare come gli attori umanitari si moltiplichino in contesti in cui l’identità dei gruppi armati è sempre più diversificata e le difficoltà di raggiungere le vittime aumentano.

La politicizzazione dell’accesso agli aiuti

Le crisi in Bosnia, in Afghanistan, in Iraq, nello Yemen e in Siria hanno messo in evidenza come l’azione umanitaria sia diventata spesso il bersaglio di violenze politiche. Di conseguenza, molte persone rimangono intrappolate nei conflitti o sono obbligate a fuggire lungo rotte in cui si trovano ad alto rischio di sfruttamento e violenza. Gli operatori umanitari si confrontano in maniera crescente con conflitti e crisi prolungate dove i civili diventano bersagli, dove l’accesso a molte aree è difficile e dove gli stessi operatori umanitari rischiano di essere visti come una minaccia. L’accesso all’aiuto umanitario, in breve, è sempre più problematico e parte integrante del conflitto. Questo porta a ridefinire il ruolo degli attori umanitari e delle politiche di negoziazione e di diplomazia umanitaria sul campo. Tale tendenza è apparsa chiaramente in Medio Oriente (particolarmente in Siria), dove l’impegno di paesi donatori molto diversi tra loro ha creato nuovi processi di negoziazione e di definizione dello spazio umanitario. In questa logica, la distribuzione dell’aiuto si intreccia con la competizione politico-strategica a livello regionale.

Politiche di diplomazia umanitaria

Il Qatar, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti rappresentano tre casi significativi per studiare i nuovi assetti della diplomazia umanitaria. Quando la politica estera della Turchia non è stata più in grado di rispondere alle esigenze dello sviluppo regionale e mondiale, la diplomazia umanitaria si è rivelata utile per estendere il ruolo della Turchia in contesti particolarmente importanti quali la Somalia e la Siria. La Turchia, infatti, ha intrapreso un processo di espansione degli aiuti umanitari e delle politiche di sviluppo in Africa e in Asia caratterizzando la propria politica estera in termini di diplomazia umanitaria (Akpinar 2013; Altunişik 2014; Davutoglu 2013). Nel corso degli ultimi anni, la Turchia è infatti diventata uno dei principali donatori umanitari al mondo.

La crescente configurazione umanitaristica degli affari esteri della Turchia ha creato contemporaneamente nuove sfide e nuove opportunità per i propri piani di sviluppo e per la cooperazione in fatto di sicurezza in Asia e in Africa. Tuttavia, molti dubbi sussistono nel definire in che misura questo tipo di diplomazia umanitaria abbia effettivamente migliorato le condizioni di accesso all’aiuto umanitario per le persone in stato di necessità in situazioni di conflitto ed estrema instabilità socio-politica. Altri dubbi riguardano l’impatto a lungo termine dell’agenda politica della Turchia sulla declinazione della propria diplomazia umanitaria (Baird 2016).

Il Qatar, d’altro canto, è un paese donatore che cerca di associare il proprio sostegno ai negoziati di pace (per esempio in Afghanistan) a un utilizzo più attivo dell’assistenza umanitaria e dei programmi di sviluppo (Bakarat 2012; 2014). Oggi il Qatar è uno dei principali donatori in Palestina. In Siria, il Qatar ha fornito miliardi di dollari ai gruppi ribelli siriani, oltre ai finanziamenti agli aiuti umanitari. Pur dando priorità ai paesi arabi, il Qatar ha sviluppato un programma umanitario di cui beneficiano più di 25 stati, molti dei quali non arabi. Questo comprende molte organizzazioni come il Programma Alimentare Mondiale, l’UNESCO, l’UNHCR, l’OMS o il Norwegian Refugee Council (Zureik 2017). Dal 2005, il Qatar ha ricoperto un ruolo importante nei tentativi di mediazione regionale per paesi quali il Sudan, il Libano, lo Yemen, l’Iraq e l’Afghanistan. Negli ultimi anni, il Qatar ha promosso due dei suoi progetti di mediazione più ambiziosi: facilitare i negoziati tra le fazioni palestinesi rivali di Fatah e Hamas e incoraggiare le trattative tra gli Stati Uniti e i Talebani. Questi sforzi hanno dato continuità alle tendenze del Qatar nell’offrire rifugio a personalità politiche controverse e, allo stesso tempo, nel fornire uno spazio sicuro per i negoziati umanitari e politici tra attori statali e non (Barakat 2012; 2014). Le strategie di mediazione del Qatar vanno di pari passo con il ruolo crescente in quanto donatore umanitario internazionale e definiscono un approccio specifico alla diplomazia umanitaria. Resta necessario comprendere appieno il ruolo che questo tipo di diplomazia umanitaria possa assumere nel processo di stabilizzazione del Medio Oriente e nella facilitazione dei negoziati tra diversi attori politici, armati e non, e quali conseguenze comporti per le organizzazioni umanitarie impegnate nei programmi di aiuto.

Sempre in Medio Oriente, dal 2001 gli Emirati Arabi Uniti, in precedenza uno stato del Golfo con una politica estera debole e neutra caratterizzata prevalentemente da interessi commerciali, hanno iniziato a contribuire militarmente in maniera significativa agli interventi internazionali in paesi quali l’Afghanistan, il Bahrein e lo Yemen. Allo stesso tempo, gli Emirati Arabi hanno incrementato i finanziamenti allo sviluppo con obiettivi strategici in materia di politica estera, specialmente nei Balcani e in Medio Oriente (Bartlett 2017).

Dal 2004, gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il secondo più grande donatore arabo nel campo dell’assistenza allo sviluppo e all’aiuto umanitario e, dal 2013, i più grandi donatori al mondo, su base pro capite, per assistenza all’estero. L’approccio specifico degli Emirati Arabi nel contesto umanitario si rivela anche nell’attuale tendenza a considerare l’umanitarismo come terreno di interesse economico. L’umanitarismo è diventato un elemento chiave nella strategia di diversificazione dell’economia nazionale. L’International Humanitarian City, che ha sede a Dubai, è il più grande centro logistico per lo stoccaggio e la distribuzione dell’aiuto umanitario in Medio Oriente. Dal 2004 Dubai accoglie la Dubai International Humanitarian Aid and Development Conference and Exhibition, che raggruppa centinaia di società private e organizzazioni a scopo di lucro che lavorano nel settore umanitario. Nel settembre 2017, il Soft Power Council degli Emirati Arabi Uniti ha lanciato la Soft Power Strategy. Questa strategia comprende diversi elementi cardine che, nel loro insieme, costituiscono il quadro della diplomazia pubblica degli Emirati Arabi Uniti. Il primo elemento è la diplomazia umanitaria che rappresenta il principale metodo con cui gli Emirati Arabi cercano di consolidare la propria rilevanza regionale in Medio Oriente. Nel corso degli ultimi due decenni gli Emirati Arabi hanno espanso il proprio ruolo attraverso una politica estera sempre più presente nei conflitti regionali; sono diventati un importante attore sul piano umanitario con una visibilità sia nel campo dell’aiuto internazionale, sia negli investimenti strategici (Bartlett 2017). Pertanto, la diplomazia umanitaria degli Emirati Arabi Uniti deve essere inquadrata all’interno di una svolta più ampia della propria politica estera e di una crescente ambizione politica ed economica sulla scena internazionale.

Prospettive di ricerca

La fusione tra politica estera e aiuti umanitari mostra come la ridefinizione dell’agenda umanitaria debba essere compresa alla luce di emergenti politiche di diplomazia umanitaria e di una riconfigurazione delle relazioni internazionali. Allo stesso tempo, è necessario approfondire i diversi approcci alla diplomazia umanitaria in una prospettiva storica che includa l’evoluzione di differenti politiche umanitarie da parte di “nuovi” e “tradizionali” attori umanitari. La natura negoziata dell’impresa umanitaria (Acuto 2014) è stata, e continua a essere, motore di cambiamenti storici che riguardano le relazioni tra paesi e la definizione di ideologie globali. Paesi come la Svezia, la Norvegia, la Svizzera e il Regno Unito contribuiscono significativamente all’impegno umanitario internazionale ed elargiscono sistematicamente finanziamenti a sostegno di organizzazioni umanitarie e ONG (Dobrowolska-Polak 2014). Sappiamo che le politiche umanitarie sviluppate da questi paesi sono motivate da numerosi fattori, incluso dinamiche geopolitiche e interessi economici, ma anche diritto internazionale e principi umanitari. Recenti studi suggeriscono che i donatori statali emergenti (così come i donatori privati e religiosi) e la crescente simbiosi della diplomazia umanitaria con la politica estera stiano trasformando la natura e la portata dell’azione umanitaria. Nuove ricerche dovranno interrogarsi sulle conseguenze a lungo termine che i cambiamenti nel campo dell’azione umanitaria hanno sulla principale esigenza di fornire accesso all’aiuto in contesti di conflitto e di gravi tensioni socio-politiche regionali.

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Humanitarian Diplomacy

Jan 2019 - Dec 2022